“Fear of missing out”, ovvero … “Paura di
essere tagliati fuori“. È la nuova ansia dei giovani. Uno stato
di tensione e frustrazione sempre più diffuso tra i nostri ragazzi sottoposti
al flusso costante contenuti, spesso evanescenti, pubblicati in tempo reale su
social network e media digitali. Per gli psicologi è uno dei
primi passi di quello che sta diventando un problema epocale e generazionale:
la dipendenza
da smartphone. Un problema che evidentemente non riguarda solo
i più giovani, ma che colpisce in special modo adolescenti e nativi digitali.
Il 79%
dei ragazzi italiani passa sui social oltre 4 ore al giorno
Secondo le
stime dell’associazione Social Warning, più di 3 ragazzi su 4, dagli 11 ai 18
anni, passerebbero almeno 4 ore al giorno davanti agli schermi di
smartphone e device digitali. Un tempo lunghissimo che equivale
a circa due mesi all’anno. Uno spazio sottratto a
esperienze culturali, relazionali, sportive che non tornerà indietro, come
recita anche l’efficace spot dell’associazione e che vede i genitori spesso
impotenti e incerti sul da farsi.
Un consumo
che si trasforma spesso in una vera e propria dipendenza di cui i ragazzi
sembrano più consapevoli di quanto si pensi. Secondo le
stime raccolte da Social Warning il 33% degli adolescenti è cosciente di fare
un uso eccessivo dei social, il 52% ha provato invano a ridurre il tempo
passato davanti agli schermi e ai media digitali. E l’assuefazione provoca irritabilità,
esattamente come avviene per altre dipendenze: un ragazzo su due dichiara di
scattare o rispondere male se disturbato mentre è alle prese con il proprio
smartphone.
“Sempre più
genitori – spiega il referente dell’Osservatorio Scientifico per Social Warning
Ceccone – descrivono i propri figli come irascibili, nervosi e aggressivi
specialmente quando viene chiesto loro di interrompere l’uso dei device. Questo
aumento dell’aggressività nasce dall’eccessivo technostress a cui sono esposti
e dalla dipendenza dagli strumenti digitali”. Ma da cosa deriva questa
dipendenza?
Dopamina: la keyword della dipendenza
Il tema non è certo nuovo ed è al centro di veri e propri prodotti cult come il documentario “The Social Dilemma” che spopola su Netflix o, per i più pazienti, il saggio “Il Capitalismo della sorveglianza” di Shoshana Zuboff, scrittrice ed accademica statunitense. È ormai evidente a tutti che i social proliferano con i dati che lasciamo quotidianamente sui loro server. L’obiettivo è catturare la nostra attenzione e spingerci a passare un tempo sempre maggiore sulle loro piattaforme. E per farlo non esitano ad utilizzare tecniche basate su una conoscenza sempre più raffinata della psicologia e delle neuroscienze.
Il primo a documentare questa dinamica è stato Tristan Harris, ex software designer di Google, in un lungo saggio che potete leggere online qui.
Per capire
cosa succede al nostro cervello ogni volta che riceviamo un feedback positivo
sui social network (che sia un like, un retweet, una views o altro) possiamo
paragonare questo processo a quanto succede nel gioco d’azzardo come le slot
machine. In questo caso è intuitivo pensare che ogni qual volta ci imbattiamo
in una combinazione vincente il nostro cervello innesca una reazione di piacere
che ci porta a reiterare l’esperienza nella speranza di provarla nuovamente. Una
dinamica che può sfociare presto in un circolo vizioso e, non di rado, in una vera e
propria dipendenza. Alla base di tutto questo c’è la biochimica
del nostro cervello e il rilascio di dopamina.
Parliamo di un neurotrasmettitore fondamentale per il nostro funzionamento
cerebrale, responsabile, tra le altre cose, delle sensazioni di soddisfazione e
gratificazione che proviamo quando sperimentiamo esperienze particolarmente
piacevoli. Questo meccanismo può essere mimato dalle sostanze psicoattive che
favoriscono il rilascio di ingenti quantità di dopamina (o inibiscono il suo
riassorbimento).
Ma la
dinamica può talvolta essere innescata da molte altre dipendenze che non hanno
a che nulla a che fare con le droghe propriamente dette. Per rimanere
schiacciati in un circolo vizioso potenzialmente senza fine è necessario
innescare un ciclo di azione, attesa e ricompensa. Si pensi ad esempio al già
citato gioco d’azzardo o al consumo compulsivo di pornografia on-line. Anche i
social network producono loop di questo tipo. La visualizzazione di like,
commenti, re-tweet e quant’altro sono interpretati dal nostro cervello come una
ricompensa per un’azione che abbiamo effettuato, catturano la nostra attenzione
e ci tengono letteralmente incollati alla piattaforma. Ogni qualvolta riceviamo
quello che il nostro cervello classificherà come un apprezzamento i nostri
neuroni rilasciano dopamina. Se questa cosa invece non avviene, la nostra
attenzione sarà catalizzata dall’attesa di questo evento. In ogni caso saremmo
sollecitati a rimanere sulla piattaforma e reiterare ciò che pensiamo possa
procurarci approvazione sociale e quindi piacere.
Ma ha senso
domandarsi se siamo di fronte a una manipolazione di massa? Per Davide De Maso,
classe ‘95 e fondatore dell’associazione Social Media Warning, questa è solo la
caratteristica strutturale degli odierni social network, il punto di partenza
da cui muoversi. E se, come affermava Marshall Mc Luhan, “il media è il
messaggio”, questa modalità non è destinata certo a migliorare.
“I social
network sono creati per far restare incollate le persone,senza queste dinamiche
forse nemmeno esisterebbero, possiamo dire che è un loro aspetto strutturale –
sottolinea De Maso che puntualizza- i social sono prodotti di mercato e quello
che osserviamo è che si continuano a rinforzare queste dinamiche. Penso ad
esempio alla diffusione di TikTok tra i più giovani. Più il social è immediato,
più questo meccanismo è evidente”
Un meccanismo che parte da lontano quindi, ma che negli ultimi anni è ancora più evidente, proprio per il cambio di contenuti e della modalità di consumo: “Se facciamo una rapida parabola, a grandi linee, di quello che è successo in questi ultimi anni passiamo da social molto basati sulla parola scritta, penso a Twitter e Facebook, ad altri basati sulle immagini come Instagram, fino ad arrivare a TikTok dove scompaiono anche le didascalie e ci troviamo di fronte a video di quindici secondi. È una lunga corsa verso il consumo immediato: Ormai più il contenuto è istantaneo, più è impattante”. Una reazione implicita a un sovraccarico informativo ormai sempre più avvertito, anche nelle nostre vite.
I social: non solo una minaccia
Ma la storia
di Davide De Maso, il giovane fondatore di Social Warning, ci porta a pensare
ai social non solo come minaccia ma come parte costitutiva della
contemporaneità. Un aspetto con cui non solo bisogna fare i conti, ma
comprenderne anche le (non poche) potenzialità.
Un’idea,
quella di una corretta educazione digitale e ai social, partorita sui banchi di
scuola: “Ero un ragazzo timido- racconta Davide – ho avuto anche qualche
problema sui social con coetanei, oggi forse lo chiameremmo cyberbullismo.
Quello che mi ha fatto smuovere è stata la vicenda di una mia amica che non è
venuta a scuola per un po’ dopo aver subito la pubblicazione di una sua foto
osé: mi sono detto qui c’è qualcosa che non torna, non c’è educazione su questo
tema”.
Nel
frattempo però i social sono diventati la sua vita, Davide è oggi un Social
Media Coach, ovvero una persona che affianca le aziende e forma i dipendenti su
come stare sui social. Anche in questo caso la scelta viene da lontano: “Mentre
a scuola ci raccontavano che i social non servivano a nulla e dovevamo
allontanarci da Internet, ho aperto delle pagine sulle mie passioni, sono
riuscito a contattare tante persone e ho cominciato farlo con gli altri, la
biblioteca del mio comune in primis. Oggi i social sono diventati anche una
professione. Social Warning nasce da questo: vuol dire attenzione a come ne
parliamo: evidenziamo i rischi, ma anche le possibilità”.
Un’iniziativa nata da un ragazzo che vuole parlare di social ai suoi coetanei
senza intermediazioni, a una generazione nata e cresciuta già nell’era
digitale.
Oggi
l’associazione si occupa di formazione nelle scuole, si avvale della
collaborazione di più professionisti e produce report e studi sul mondo del
digitale. L’obiettivo è quello di fornire una specie di cartina di un
territorio, per molti versi ancora inesplorato. E se alcune campagne puntano
anche ai genitori, l’obiettivo rimangono i ragazzi, una generazione che si
trova ad affrontare l’ennesima crisi epocale della sua giovane esistenza:
“Parliamo della generazione Z, una generazione che cerca molto di mettersi in
gioco: sono cresciuti nella Crisi, hanno visto i loro genitori, o magari i
fratelli maggiori, in difficoltà; hanno una forte leva di voler realizzare
qualcosa e rendersi indipendenti subito anche economicamente. I social possono
essere un mezzo per coltivare i loro talenti e farli fruttare e invece vengono comunicati
ancora come qualcosa di solo negativo”.
Made with Flourish
E il trucco
sembra quello di, non solo guardare i social, con occhio critico, ma anche con
una modalità più attiva: “Bisogna cambiare atteggiamento: noi focalizziamo i
ragazzi a capire come il web e i social possono aiutarli nel loro lavoro e
nelle loro aspirazioni, piuttosto che concentrarsi nella fruizione passiva. Per
esempio ho consigliato in una scuola per parrucchieri, ragazzi che lavoravano
con passione, di aprire una pagina instagram per farsi conoscere: dopo poco
avevano già i primi clienti. Il 50% dei ragazzi che vanno in stage usano i
social in azienda del resto. Se coltiviamo le competenze digitali dei ragazzi
si aprono anche nuove opportunità di lavoro” sottolinea De Maso.
L’importanza della reputazione social
Ma se è importante non sviluppare una dipendenza dai social network è anche importante comprendere le minacce che la rete porta con sé. Minacce che oggi si chiamano pedo-pornografia online, cyberbullismo, revenge porn, ma non solo. De Maso che, oltre a presiedere l’associazione Social Warning, insegna anche in un istituto professionale, tende a ricordare qualcosa che i più giovani (e non solo), scordano spesso. Già, perché nel momento che i confini tra mondo digitale e mondo fisico sono sempre più labili, anche la reputazione social diventa reputazione tout court.
E le nostre azioni di oggi influiscono pesantemente anche sulla nostra vita di domani: “Quello che pubblichiamo sul web e sui social influiscono sul nostro futuro, molti ragazzi non troveranno lavoro per quello che pubblicano oggi sui social” sottolinea De Maso.
E i numeri
sono davvero inquietanti: “Un recente studio ci indica che una persona su
quattro viene scartata dalle selezioni di lavoro per quello che pubblica sul
web: è un tema enorme, sul quale ancora non viene fatto prevenzione. Se io
pubblico una mia foto ubriaco questa cosa mi farà ridere sul momento e sarà
divertente per i miei amici. Se insulto il presidente della mia Regione o il
presidente del Consiglio, magari in quel momento mi sarò sfogato: ma è miope
pensare che queste cose non abbiano conseguenze- continua il fondatore di
Social Warning- quello che facciamo oggi avrà un impatto sul nostri futuro e
quello che si scrive o si pubblica su internet non viene certo cancellato”. Sì,
perché se internet ha annullato le distanze non solo spaziali, ma anche
temporali. Nel continuo presente in cui tutti siamo immersi le tracce del
nostro passato sono sempre fra noi. Uno sforzo che deve essere centrato sui
ragazzi, mentre rimane fondamentale anche l’educazione dei genitori.
“Nemmeno gli
adulti sono consapevoli di queste dinamiche, come del resto osserviamo la
stessa leggerezza su altri temi- sottolinea De Maso- in molte famiglie
l’utilizzo del cellulare è consentito a ogni ora del giorno, mentre i ragazzi
vanno a dormire con gli youtuber e i genitori non dicono nulla perché magari
sono anche loro a essere dipendenti e questa modalità è vista come normale. Bisogna
ripartire anche dall’educazione dei padri e delle madri a queste nuove
dinamiche ed è questo che, con questa associazione,
cerchiamo di fare”.
Nessun commento:
Posta un commento