domenica 6 dicembre 2020

SOCIALE - Il pericolo degli smartphone e la dipendenza.

 Due mesi all’anno sui social. Come difendere i giovani dalla “dipendenza da smartphone”

 

“Fear of missing out”, ovvero … “Paura di essere tagliati fuori“. È la nuova ansia dei giovani. Uno stato di tensione e frustrazione sempre più diffuso tra i nostri ragazzi sottoposti al flusso costante contenuti, spesso evanescenti, pubblicati in tempo reale su social network e media digitali. Per gli psicologi è uno dei primi passi di quello che sta diventando un problema epocale e generazionale: la dipendenza da smartphone. Un problema che evidentemente non riguarda solo i più giovani, ma che colpisce in special modo adolescenti e nativi digitali.


Il 79% dei ragazzi italiani passa sui social oltre 4 ore al giorno

Secondo le stime dell’associazione Social Warning, più di 3 ragazzi su 4, dagli 11 ai 18 anni, passerebbero almeno 4 ore al giorno davanti agli schermi di smartphone e device digitali. Un tempo lunghissimo che equivale a circa due mesi all’anno. Uno spazio sottratto a esperienze culturali, relazionali, sportive che non tornerà indietro, come recita anche l’efficace spot dell’associazione e che vede i genitori spesso impotenti e incerti sul da farsi.

Un consumo che si trasforma spesso in una vera e propria dipendenza di cui i ragazzi sembrano più consapevoli di quanto si pensi. Secondo le stime raccolte da Social Warning il 33% degli adolescenti è cosciente di fare un uso eccessivo dei social, il 52% ha provato invano a ridurre il tempo passato davanti agli schermi e ai media digitali. E l’assuefazione provoca irritabilità, esattamente come avviene per altre dipendenze: un ragazzo su due dichiara di scattare o rispondere male se disturbato mentre è alle prese con il proprio smartphone.

“Sempre più genitori – spiega il referente dell’Osservatorio Scientifico per Social Warning Ceccone – descrivono i propri figli come irascibili, nervosi e aggressivi specialmente quando viene chiesto loro di interrompere l’uso dei device. Questo aumento dell’aggressività nasce dall’eccessivo technostress a cui sono esposti e dalla dipendenza dagli strumenti digitali”. Ma da cosa deriva questa dipendenza?

Dopamina: la keyword della dipendenza

Il tema non è certo nuovo ed è al centro di veri e propri prodotti cult come il documentario “The Social Dilemma” che spopola su Netflix o, per i più pazienti, il saggio “Il Capitalismo della sorveglianza” di Shoshana Zuboff, scrittrice ed accademica statunitense. È ormai evidente a tutti che i social proliferano con i dati che lasciamo quotidianamente sui loro server. L’obiettivo è catturare la nostra attenzione e spingerci a passare un tempo sempre maggiore sulle loro piattaforme. E per farlo non esitano ad utilizzare tecniche basate su una conoscenza sempre più raffinata della psicologia e delle neuroscienze. 

Il primo a documentare questa dinamica è stato Tristan Harris, ex software designer di Google, in un lungo saggio che potete leggere online qui.

Per capire cosa succede al nostro cervello ogni volta che riceviamo un feedback positivo sui social network (che sia un like, un retweet, una views o altro) possiamo paragonare questo processo a quanto succede nel gioco d’azzardo come le slot machine. In questo caso è intuitivo pensare che ogni qual volta ci imbattiamo in una combinazione vincente il nostro cervello innesca una reazione di piacere che ci porta a reiterare l’esperienza nella speranza di provarla nuovamente. Una dinamica che può sfociare presto in un circolo vizioso e, non di rado, in una vera e propria dipendenza. Alla base di tutto questo c’è la biochimica del nostro cervello e il rilascio di dopamina. Parliamo di un neurotrasmettitore fondamentale per il nostro funzionamento cerebrale, responsabile, tra le altre cose, delle sensazioni di soddisfazione e gratificazione che proviamo quando sperimentiamo esperienze particolarmente piacevoli. Questo meccanismo può essere mimato dalle sostanze psicoattive che favoriscono il rilascio di ingenti quantità di dopamina (o inibiscono il suo riassorbimento).

Ma la dinamica può talvolta essere innescata da molte altre dipendenze che non hanno a che nulla a che fare con le droghe propriamente dette. Per rimanere schiacciati in un circolo vizioso potenzialmente senza fine è necessario innescare un ciclo di azione, attesa e ricompensa. Si pensi ad esempio al già citato gioco d’azzardo o al consumo compulsivo di pornografia on-line. Anche i social network producono loop di questo tipo. La visualizzazione di like, commenti, re-tweet e quant’altro sono interpretati dal nostro cervello come una ricompensa per un’azione che abbiamo effettuato, catturano la nostra attenzione e ci tengono letteralmente incollati alla piattaforma. Ogni qualvolta riceviamo quello che il nostro cervello classificherà come un apprezzamento i nostri neuroni rilasciano dopamina. Se questa cosa invece non avviene, la nostra attenzione sarà catalizzata dall’attesa di questo evento. In ogni caso saremmo sollecitati a rimanere sulla piattaforma e reiterare ciò che pensiamo possa procurarci approvazione sociale e quindi piacere.

Ma ha senso domandarsi se siamo di fronte a una manipolazione di massa? Per Davide De Maso, classe ‘95 e fondatore dell’associazione Social Media Warning, questa è solo la caratteristica strutturale degli odierni social network, il punto di partenza da cui muoversi. E se, come affermava Marshall Mc Luhan, “il media è il messaggio”, questa modalità non è destinata certo a migliorare.

“I social network sono creati per far restare incollate le persone,senza queste dinamiche forse nemmeno esisterebbero, possiamo dire che è un loro aspetto strutturale – sottolinea De Maso che puntualizza- i social sono prodotti di mercato e quello che osserviamo è che si continuano a rinforzare queste dinamiche. Penso ad esempio alla diffusione di TikTok tra i più giovani. Più il social è immediato, più questo meccanismo è evidente”

Un meccanismo che parte da lontano quindi, ma che negli ultimi anni è ancora più evidente, proprio per il cambio di contenuti e della modalità di consumo: “Se facciamo una rapida parabola, a grandi linee, di quello che è successo in questi ultimi anni passiamo da social molto basati sulla parola scritta, penso a Twitter e Facebook, ad altri basati sulle immagini come Instagram, fino ad arrivare a TikTok dove scompaiono anche le didascalie e ci troviamo di fronte a video di quindici secondi. È una lunga corsa verso il consumo immediato: Ormai più il contenuto è istantaneo, più è impattante”. Una reazione implicita a un sovraccarico informativo ormai sempre più avvertito, anche nelle nostre vite.

I social: non solo una minaccia

Ma la storia di Davide De Maso, il giovane fondatore di Social Warning, ci porta a pensare ai social non solo come minaccia ma come parte costitutiva della contemporaneità. Un aspetto con cui non solo bisogna fare i conti, ma comprenderne anche le (non poche) potenzialità.

Un’idea, quella di una corretta educazione digitale e ai social, partorita sui banchi di scuola: “Ero un ragazzo timido- racconta Davide – ho avuto anche qualche problema sui social con coetanei, oggi forse lo chiameremmo cyberbullismo. Quello che mi ha fatto smuovere è stata la vicenda di una mia amica che non è venuta a scuola per un po’ dopo aver subito la pubblicazione di una sua foto osé: mi sono detto qui c’è qualcosa che non torna, non c’è educazione su questo tema”.

Nel frattempo però i social sono diventati la sua vita, Davide è oggi un Social Media Coach, ovvero una persona che affianca le aziende e forma i dipendenti su come stare sui social. Anche in questo caso la scelta viene da lontano: “Mentre a scuola ci raccontavano che i social non servivano a nulla e dovevamo allontanarci da Internet, ho aperto delle pagine sulle mie passioni, sono riuscito a contattare tante persone e ho cominciato farlo con gli altri, la biblioteca del mio comune in primis. Oggi i social sono diventati anche una professione. Social Warning nasce da questo: vuol dire attenzione a come ne parliamo: evidenziamo i rischi, ma anche le possibilità”. Un’iniziativa nata da un ragazzo che vuole parlare di social ai suoi coetanei senza intermediazioni, a una generazione nata e cresciuta già nell’era digitale.

Oggi l’associazione si occupa di formazione nelle scuole, si avvale della collaborazione di più professionisti e produce report e studi sul mondo del digitale. L’obiettivo è quello di fornire una specie di cartina di un territorio, per molti versi ancora inesplorato. E se alcune campagne puntano anche ai genitori, l’obiettivo rimangono i ragazzi, una generazione che si trova ad affrontare l’ennesima crisi epocale della sua giovane esistenza: “Parliamo della generazione Z, una generazione che cerca molto di mettersi in gioco: sono cresciuti nella Crisi, hanno visto i loro genitori, o magari i fratelli maggiori, in difficoltà; hanno una forte leva di voler realizzare qualcosa e rendersi indipendenti subito anche economicamente. I social possono essere un mezzo per coltivare i loro talenti e farli fruttare e invece vengono comunicati ancora come qualcosa di solo negativo”.

Made with Flourish

E il trucco sembra quello di, non solo guardare i social, con occhio critico, ma anche con una modalità più attiva: “Bisogna cambiare atteggiamento: noi focalizziamo i ragazzi a capire come il web e i social possono aiutarli nel loro lavoro e nelle loro aspirazioni, piuttosto che concentrarsi nella fruizione passiva. Per esempio ho consigliato in una scuola per parrucchieri, ragazzi che lavoravano con passione, di aprire una pagina instagram per farsi conoscere: dopo poco avevano già i primi clienti. Il 50% dei ragazzi che vanno in stage usano i social in azienda del resto. Se coltiviamo le competenze digitali dei ragazzi si aprono anche nuove opportunità di lavoro” sottolinea De Maso.

L’importanza della reputazione social

Ma se è importante non sviluppare una dipendenza dai social network è anche importante comprendere le minacce che la rete porta con sé. Minacce che oggi si chiamano pedo-pornografia online, cyberbullismo, revenge porn, ma non solo. De Maso che, oltre a presiedere l’associazione Social Warning, insegna anche in un istituto professionale, tende a ricordare qualcosa che i più giovani (e non solo), scordano spesso. Già, perché nel momento che i confini tra mondo digitale e mondo fisico sono sempre più labili, anche la reputazione social diventa reputazione tout court.

E le nostre azioni di oggi influiscono pesantemente anche sulla nostra vita di domani: “Quello che pubblichiamo sul web e sui social influiscono sul nostro futuro, molti ragazzi non troveranno lavoro per quello che pubblicano oggi sui social” sottolinea De Maso.

E i numeri sono davvero inquietanti: “Un recente studio ci indica che una persona su quattro viene scartata dalle selezioni di lavoro per quello che pubblica sul web: è un tema enorme, sul quale ancora non viene fatto prevenzione. Se io pubblico una mia foto ubriaco questa cosa mi farà ridere sul momento e sarà divertente per i miei amici. Se insulto il presidente della mia Regione o il presidente del Consiglio, magari in quel momento mi sarò sfogato: ma è miope pensare che queste cose non abbiano conseguenze- continua il fondatore di Social Warning- quello che facciamo oggi avrà un impatto sul nostri futuro e quello che si scrive o si pubblica su internet non viene certo cancellato”. Sì, perché se internet ha annullato le distanze non solo spaziali, ma anche temporali. Nel continuo presente in cui tutti siamo immersi le tracce del nostro passato sono sempre fra noi. Uno sforzo che deve essere centrato sui ragazzi, mentre rimane fondamentale anche l’educazione dei genitori.

“Nemmeno gli adulti sono consapevoli di queste dinamiche, come del resto osserviamo la stessa leggerezza su altri temi- sottolinea De Maso- in molte famiglie l’utilizzo del cellulare è consentito a ogni ora del giorno, mentre i ragazzi vanno a dormire con gli youtuber e i genitori non dicono nulla perché magari sono anche loro a essere dipendenti e questa modalità è vista come normale. Bisogna ripartire anche dall’educazione dei padri e delle madri a queste nuove dinamiche ed è questo che, con questa associazione, cerchiamo di fare”.

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