È scomparso
all’età di 79 anni (ne avrebbe compiuti 80 il prossimo mese di luglio) Marco
Bollesan, una ‘leggenda’ della palla ovale italiana. Al suo nome è legato un
periodo davvero ricco di soddisfazioni del Rugby Livorno. Bollesan ha ricoperto
il ruolo di carismatico allenatore della squadra biancoverde per quattro
stagioni, dal 1989/90 al 1992/93. Sotto la sua guida, i labronici sono riusciti
a raggiungere prestigiosissime mete. Nell’annata di A1 1989/90, il Rugby
Livorno – targato Corime e con David Knox mediano di apertura – raggiunse la
sesta posizione in A1 (il massimo campionato domestico). Si è trattato del
miglior piazzamento in senso assoluto mai raggiunto dal Rugby Livorno in questi
primi 90 anni d’attività. In quel favoloso campionato, memorabili, tra le
altre, le vittorie con il Benetton Treviso (allo stadio ‘Picchi’) e con
L’Aquila (sia in trasferta, sia in casa). Con Bollesan allenatore, il Rugby
Livorno ha colto, sempre in A1, nella stagione 90/91, l’ottavo posto. Poi
dodicesima piazza e sfortunata retrocessione in A2 nell’annata 91/92 e la
‘ricostruzione’ con tanti giovani provenienti dal vivaio, in A2, nella stagione
92/93 (con un buonissimo quinto posto). Ecco come la Fir, con una nota sul suo
sito ufficiale, ricorda la figura di Bollesan.
Quarantasette volte azzurro, trentaquattro volte capitano della Nazionale,
Commissario Tecnico alla prima Rugby World Cup del 1987, Team Manager nelle
rassegne iridate del 2003 e del 2007, fondatore delle Zebre nella loro forma
originaria di invitational club italiano.
(Marco Bollesan è il quinto in piedi partendo dalla destra ultima riga)
“Leggenda” non è un termine abusato quando lo si lega al nome di Marco
Bollesan, Azzurro numero 193, unico rugbista inserito dal CONI nella Walk of
Fame che attraversa il Parco del Foro Italico, scomparso ieri sera 11 aprile a
Genova. Avrebbe compiuto ottant’anni il prossimo 7 luglio.
Dal suo debutto con l’Italia, nemmeno ventiduenne il 14 aprile del 1963 a
Grenoble contro la Francia, un’istituzione del rugby azzurro, una bandiera, un
simbolo in anni in cui la palla ovale era lontanissima dai riflettori odierni e
il Sei Nazioni, per il nostro rugby, più un sogno che un’ambizione.
Nato a Chioggia ma cresciuto a Genova, flanker nelle fila del CUS del
capoluogo ligure, dopo essersi imposto come una delle migliori terze linee del
panorama nazionale era passato alla Partenope conquistando il titolo di
Campione d’Italia del 1966 prima di rientrare al suo club d’origine, sfiorando
per tre anni il titolo tricolore con i genovesi per poi conquistarlo nel 1975
con la maglia del Brescia, nello stesso anno della sua ultima apparizione in
azzurro contro la Cecoslovacchia a Reggio Calabria.
In carriera aveva avuto il privilegio di capitanare l’Italia in occasione
dello storico tour sudafricano del 1973, uno dei punti di svolta nella storia
della palla ovale nostrana e, nello stesso anno era stato tra i soci fondatori
delle Zebre.
Nominato Commissario Tecnico, in tandem con Gianni Franceschini, nel primo
mandato della presidenza Mondelli, aveva guidato la Nazionale alla prima Rugby
World Cup del 1987 in Nuova Zelanda, sfiorando l’accesso ai quarti di finale.
Tra il 2002 ed il 2008 era rientrato nello staff della Nazionale come Team
Manager durante le gestioni di John Kirwan e Pierre Berbizier, ultimi passi
professionali di una vita interamente dedicata al servizio del rugby italiano.
“Per i
rugbisti della mia generazione, per chiunque abbia praticato lo sport tra gli
Anni ’60 e gli Anni ’80, ma anche per chi è venuto dopo Marco Bollesan è stato
un esempio, l’epitome del rugbista coraggioso, il simbolo di un Gioco dove
fango, sudore e sangue rappresentavano i migliori titoli onorifici. Ha
contribuito a far conoscere il rugby nel nostro Paese ben prima della
rivoluzione professionistica del 1996, incarnando lo spirito del rugby italiano
per oltre due decenni e rivestendo anche negli anni successivi al suo ritiro
dal campo una serie di ruoli strategici per la Federazione. Gli saremo
eternamente grati per il suo straordinario contributo ed io, in particolare,
porterò sempre nel cuore i suoi insegnamenti e l’onore che mi riconobbe
assegnandomi, da Commissario Tecnico, i gradi di capitano della Nazionale
durante la sua gestione. Siamo vicini alle figlie Miride e Marella ed a tutta
la sua famiglia. Il rugby italiano ha perso uno dei suoi figli prediletti” ha
dichiarato il Presidente della FIR, Marzio Innocenti, esprimendo il cordoglio
della Federazione.
“A nome personale, e del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, esprimo la più sincera vicinanza alla Federazione, al Presidente Marzio Innocenti e a tutta la grande famiglia del rugby in questo momento di profondo dolore per la scomparsa di Marco Bollesan, dopo la prematura perdita di Massimo Cuttitta. Lo sport italiano perde due grandi campioni, mirabili interpreti dei valori che lo caratterizzano e intramontabili esempi di capacità e professionalità. Ricordo con orgoglio l’attribuzione di un posto nella Walk of Fame del CONI, istituita nel 2015, al grande Bollesan, mito senza tempo per i titoli ottenuti e per il suo percorso, che lo ha consegnato per sempre alla storia del movimento. Sono sicuro che il ricordo ispirerà le nuove generazioni, chiamate a emulare gesta intramontabili” ha dichiarato il Presidente del CONI, Giovanni Malagò.
I funerali di Marco Bollesan si svolgeranno martedì 13 aprile alle ore 11.30
presso la Chiesa di Sant’Antonio a Boccadasse, Genova.
Carriera da
giocatore
Caps 47
Caps da Capitano della Nazionale 34
Vittorie 19
Pareggi 3
Sconfitte 25
Esordio in Nazionale: Francia v Italia 14-12, Grenoble 14 aprile 1963
Ultimo test-match: Italia v Cecoslovacchia 49-9, Reggio Calabria 10 maggio 1975
Titoli di Campione d’Italia: 1965/66 (Partenope Rugby), 1974/75 (Brescia)
Carriera da
Commissario Tecnico della Squadra Nazionale (1985-1988)
Test-match 19
Vittorie 7
Pareggi 1
Sconfitte 11
Il ricordo di
Giorgio Cimbrico, giornalista de Il Secolo XIX
Era
irresistibile. «Vieni, che faccio picchiare i manager». E quando lui
diceva «vieni» uno andava e lui li faceva picchiare davvero e il bello è che lo
pagavano perché sapeva far affiorare l’aggressività e lo spirito di squadra e
alla fine erano tutti sudati e contenti, si davano pacche sulle spalle e le
davano anche al loro insegnante,
Anche nelle tenebre in cui era scivolato, anche nella battaglia che aveva
ingaggiato e vinto con il virus, anche quando la corazza di muscoli si era
disciolta, Marco Bollesan è rimasto l’Implaccabile.
L’unico scontro duro, dal quale non si era rialzato, lo aveva subito quando
le alte onde flagellavano il golfo di Genova e si portavano via le barche della
piccola insenatura di Boccadasse, quelle dei suoi amici, i suoi vecchietti, li
chiamava lui. E così andò a dare una mano, rimase schiacciato tra gli scafi e
ci rimise una spalla e per due mesi visse e provò a dormire con una impalcatura
che gli stava appesa addosso e naturalmente ne uscì.
Un po’ di anni fa un giovanotto, ex-giocatore, con il cuore gentile e pieno
di rugby, andò per una serie di pomeriggi a registrare dalla voce di Marco quel
che è abbastanza semplice classificare come un “confesso che ho vissuto”.
Ne nacque un bel libro (l’autore se n’è andato giovane, in una notte fatale) e
chissà se un giorno se ne potrà ricavare un film, meglio in bianco e nero, tipo
“Il Campione” con Richard Harris.
Ne varrebbe la pena perché la vita di Marco è stata una faccenda sospesa
tra realtà e leggenda (ogni tanto balena l’interrogativo: nato
a Chioggia o a Zagabria?) con un primo personaggio centrale che, come in un
romanzo di Guenther Grass, è la nonna. Quella di Guenther aveva ampie gonne,
perfette per trovar rifugio; di quella di Marco non è stato tramandato
l’abbigliamento. Dei genitori c’è una traccia lieve: madre bellissima e
avventuriera (sembra la Venexiana Stevenson di Hugo Pratt), padre dedito a
svariati commerci.. Non ci sono mai, ma c’è la nonna.
Poi, come in tutti i miti, c’è un mentore, un centauro che istruisce l’allievo,
Tonino Massa. Testimonianza chiave: «Era una delle prime volte che veniva al
campo, era brutto tempo e finimmo a lavorare nella palestra del Carlini: lo
trovai che litigava con un termosifone». Non è noto chi abbia avuto la
peggio.
Oltre che Ercole, Marco è stato anche Giasone, o, perlomeno, un nocchiero
di Ulisse: da militare, marinaio a La Spezia, vogava. Nel due senza, con
Casagrande, poi trapiantato in Sudafrica e padre del Bart, enorme ragazzo
che diede una mano al Cus Genova fine anni Novanta. Da marò, non un modello di
disciplina. «Capita quando hai a che fare con sottufficiali stronzi. Uno mi
prese di punta e mi fece sbattere in cella: ebbi modo di sistemarlo». Sorriso
alla Schwarzenegger::un po’ somigliava.
Coinvolgendo, raccontando, affabulando, affascinando, dava al tempo i suoi
ritmi un campione sul campo, un simbolo (il rugby era lui), un campione al
banco del bar: Non c’è bar dove non lo conoscessero: “Ho visto
Marco, è passato Marco». Dal vecchio angiporto (lì l’obiettivo è la malvasia
dei colli piacentini) ai quartieri più eleganti: Marco non beveva Negroni o
Martini, era un modestissimo consumatore di birra, era un adepto del gin and
tonic e confessava che se Socrate era stato sistemato con la cicuta lui avrebbe
voluto chiudere con una flebo di acqua tonica e distillato di ginepro, la
miglior mistura per galoppare verso i Campi Elisi. Al Seven della tradizione,
nella scozzese Gala, infilò un lungo percorso netto e, dirigendosi verso la
cena ufficiale, dimenticò che c’era un ponticello e così, in compagnia di un
irlandese che come lui aveva fatto il pieno, guadò un torrente. E così alla
cena arrivarono fradici dalla vita in giù: la cravatta era in salvo.
Da giovane aveva le tasche vuote: non lo nascondeva, non lo dimenticava,
non se ne vergognava. Con il rugby non è diventato ricco ma ha campato
soprattutto facendo quel che gli piaceva. Sembra poco, è tutto. Avrebbe potuto
avere di più, giocare in Francia ma qualcuno nascose lettera e offerta e lui
non ne ha mai fatto un dramma. È andata così.
In un rugby molto veneto, lui, dotato di nome veneto, finì per portare lo
scudetto a Napoli e a Brescia e, tra l’una e l’altra delle imprese,
sfiorarlo due volte a Genova con una squadra che aveva costruito pezzo per
pezzo, «meno un buon calciatore». Il primo globalizzatore, almeno a livello
nazionale.
Era in campo a Grenoble, per la Mala Pasqua del ’63, e ne portava le
stigmate («una gomitata all’arcata di quel francese che, per via dei baffi,
chiamavano le Mongol: “ti ho insegnato a vivere”, mi ha detto dopo e mi ha
regalato la maglia»), è riuscito ad assaggiare il rugby britannico quando
quello italiano era lontano miglia e leghe («Avevamo giocato contro un po’ di
contee e il sabato ci portarono a Twckenham per Inghilterra-Galles: nel cestino
da viaggio, fagiano in gelatina e Moet Chandon. Che roba»), giocò a Llanelli
(“mi aprirono la testa come un salvadanaio”) e aggiunse punti alla collezione
(“non sono un uomo, sono un tailleur), mise assieme una squadra di “banditi”, i
suoi banditi, e nell’estate del ’73, la portò per un mese in Sudafrica
rimediando mazzate tremende, creando una coscienza nuova, mettendo assieme
incontri memorabili (il vecchio Springbok che aveva ucciso un leone con le sue
mani è diventato un classico) e toccando, quando vennero affrontati i Leopards,
la realtà dell’apartheid.
Ha fondato le Zebre, i Barbarians d’Italia (“a casa mia sventola sempre la
bandiera”), e da commissario tecnico, nell’87, primo Mondiale, è quello che è
andato più vicino a portare l’Italia tra i primi otto paesi del mondo. De
mortuis nisi bonum, dicono quelli che amano le citazioni latine, ma per lui
valeva anche quand’era vivo.
Di FABIO GIORGI
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