MILANO AVEVA ANCORA BISOGNO DI UN POSTO COME
MARIPOSA.
Lo storico
negozio di dischi alla fermata Duomo della metro, che ha formato generazioni di
punk e metallari, non riapre. L'omaggio commosso di un romano in trasferta in
città.
Le cose cambiano, come dice il titolo di un vecchio
film di David Mamet. Alcune volte invece le cose finiscono, e quando succede è
brutto, semplice così. Mariposa, lo storico
negozio di dischi di Milano, dopo trentacinque anni d'onorato servizio, non
esiste più. Lo hanno annunciato sui loro canali social i gestori
dell'esercizio durante il lockdown: anche quando si potrà riaprire, noi non lo
faremo. Che la crisi sarà profonda è risaputo, che la musica non sarà affatto
risparmiata, anzi, altrettanto.
Nel 1988 avevo appena dieci anni, ma, per quanto strano possa sembrare, è cominciato tutto lì. Romano, fui spedito a Milano in vacanza, dove ero ospitato da una zia. Non proprio la classica zia tutta abbracci e biscotti alla cannella. Piuttosto una trentenne trasferita dall'immobile provincia sicula alla frenetica metropoli lombarda, che si divideva tra supplenze a scuola, un lavoretto part-time per La Settimana Enigmistica e i concerti dei CCCP al Leoncavallo e dei Police al Pala Lido (quello con i Cramps in apertura, per non farsi mancare niente). Di tutto questo, però, all'affezionatissimo vostro importava niente. Fiero della sua giacca a vento coi colori di Jeeg Robot - roba che Calcutta scansate - in testa aveva solo di vedere il Duomo.
Nel 1988 avevo appena dieci anni, ma, per quanto strano possa sembrare, è cominciato tutto lì. Romano, fui spedito a Milano in vacanza, dove ero ospitato da una zia. Non proprio la classica zia tutta abbracci e biscotti alla cannella. Piuttosto una trentenne trasferita dall'immobile provincia sicula alla frenetica metropoli lombarda, che si divideva tra supplenze a scuola, un lavoretto part-time per La Settimana Enigmistica e i concerti dei CCCP al Leoncavallo e dei Police al Pala Lido (quello con i Cramps in apertura, per non farsi mancare niente). Di tutto questo, però, all'affezionatissimo vostro importava niente. Fiero della sua giacca a vento coi colori di Jeeg Robot - roba che Calcutta scansate - in testa aveva solo di vedere il Duomo.
A dieci anni io ero strano
forte. Non che sia migliorato con il tempo, anzi, ma a dieci anni, ragazzo della
capitale, diviso tra una mai del tutto chiarita fascinazione per il Milan del
suo ottavo ambiguo scudetto e la Ferrari coi propulsori sovralimentati di
Alboreto, per un soffio non sono diventato ciò che oggi più detesto:
uno yuppie, come si diceva allora, un rampante, sì, insomma, un fottuto
arrivista. Il soffio, per fortuna, è spirato proprio sotto al Duomo.
Per sotto intendo proprio
sotto. Arrivati alla fermata della metro, nella Galleria Radegonda della fermata più centrale che ci sia
nella metropoli. In quello che poi non è altro che uno dei cunicoli che ti
permettono di riemergere dal sottosuolo, la mia attenzione fu rapita. Portata
via da un cartonato con l'immagine di un ragazzo dai capelli colorati di rosso
e una buffa smorfia.
Vi fu qualche istante di silenzio. Poi, mentre mia zia scorreva i
volti di quanti incrociavamo, dissi all'improvviso: “Lui lo conosco!”. Lo
pronunciai con una certa foga, e per un attimo mi venne il dubbio di aver detto
una fesseria. Ma quando alzai lo sguardo, mia zia mi voltava ancora lo testa e
non sembrava essersi mossa di un millimetro. Allora aggiunsi: “Ho visto le
magliette, e gli adesivi sui motorini”. Lei si voltò e disse elementare, come
si spiega il mondo a chi non lo conosce: “Si chiama Gionni Rotten, è il cantante di un
gruppo famoso, i Sex Pistols”.
Sembrava stesse recitando una frase imparata a memoria e provata più volte.
Nonostante ciò, nella sua voce c'era qualcosa di commovente. Una frase
rapidissima e risolutiva, fatta quasi senza pensarci. Nondimeno quella frase
era piena di rispetto spontaneo, di sollecitudine, di volontà di fare un
piccolo favore a chi meritava di non rimanere un anonimo volto su un cartonato.
Una maglietta. Un adesivo. Un'azione da nulla, che mi rivelava l'esistenza di
un mondo musicale che mi era stato rigidamente precluso. E in quel preciso
istante avrei voluto sentire questa musica in grado di sciogliere la voce di
mia zia.
L'aneddoto di Johnny Purtefatto tenne banco tutta
l'estate successiva. Surclassando quello durato anni, di quando azzeccai dal
nulla il nome Thomas Alva Edison rispondendo a una domanda di mio padre.
Venni
così a sapere che quello che avevo visto era The
Swindle Continues, una delle uscite nel decennale della fine del gruppo. Che
ero troppo piccolo per sapere che cosa volesse dire Sex Pistols. “Alcune cose non si possono tradurre”.
Soprattutto scoprii che quello era Mariposa, “Farfalla, in spagnolo”, un minuscolo negozio che nel giro di tre anni
era diventato una piccola mecca per appassionati di musica alternativa a Milano.
In effetti come poteva essere altrimenti. Teschi, incappucciati, mostri,
alieni, mutanti, demoni e diavoli. E poi clessidre,
serpenti, zucche, croci e gente che suona in tutte le
possibili pose. No, non è un sabba, ma come si presentava la sua vetrina quando
ci tornai, due anni dopo, accompagnato, ma di proposito. Una piccola bottega
delle meraviglie in piena Milano. Tempio dei teenager innamorati del
metal sì ma anche del punk, del gothic e quant'altro, luogo di ritrovo di
fedelissimi del non-conforme, che in quel luogo trovava linfa vitale e fonte
d'ispirazione.
Mariposa aveva
aperto i battenti nel 1985, specializzandosi
in dischi, libri, poster, videocassette di tutto ciò che riguardasse il giro
più underground delle sette note. Tempo di mettere radici, manco a farlo
apposta sottoterra, ed ecco che scattava la polemica. Perché quel negozietto
turbava e infastidiva l'immagine da cartolina che una fermata come “Duomo”
doveva conferire alla città. Dava noie alla morale comune, al senso del pudore,
ma soprattutto minava la fragilità dei più giovani, che così, da
spumeggianti cummenda rischiavano di divenire drogati, violenti o persino
musicisti. Perché, prima di diventare il luogo storico di Milano di cui in
questi giorni tutti piangono la chiusura, Mariposa si prese le accuse dei
benpensanti. Molto più del vecchio Transex Dischi di via Cappellari, che era a
due minuti di distanza, ma era meno di passaggio.
Se infatti anni addietro xL di
Repubblica scriveva in un suo articolo: “Dominano i titoli di
pregio e da battaglia. C'è Pippo, il proprietario, un veterano del commercio di
dischi ma pure un vero conoscitore, e sa fornire ancora suggerimenti di
acquisto degni di nota”, ne L'Espresso del
1991 la Milano bene sbottava: “Vengono esposti in vetrina, offerti alla
pubblica vendita dischi orribili e raccapriccianti, capaci di turbare il sano
sviluppo dei minori”.
E
probabilmente si riferivano a una di quelle file
sempre ordinate per i biglietti dei concerti o partecipare
a qualche firma-copie tanto dei Machine Head quanto, più di recente, di
Ketama126. Quante centinaia di file si sono formate in questi anni davanti alla
porta d'entrata – dove c'era un lungo foglio bianco ad elencare gli eventi in
programma –, anche nel tempo in cui i biglietti online si comprano in due clic?
Le
creature nelle vetrine di Mariposa, tra amuleti, zombie e
mani al cielo dei concerti, o addirittura i cofanetti a forma
di bara e fumetti da collezione, hanno sempre avuto più il sapore dello scherzo
che del delitto. Più del divertimento che della bolgia infernale. Tutt'al più
stimolato la fantasia degli aficionados, che cercano la colonna sonora fatta
dai Goblin o da Teho Teardo o il box antologico degli Spiritual Front, non
certo il Mein Kampf di Adolf Hitler - per quello bisogna salire in superficie,
alla luce, in Galleria Vittorio Emanuele II.
Negli anni ci sono
passato di continuo, quasi tutte le volte che mi trovavo a Milano. Anche quando fui abbastanza grande per altri avamposti di cultura
alternativa, da Sound Cave a Psycho. Il giorno stesso in cui mia zia si sposò,
poco prima di andare in comune, andammo lì e mi comprò una copia di Arise dei
Sepultura. Ci sono passato davanti l'ultima volta qualche mese
fa, sempre con mia zia. Era festivo e quindi era chiuso, ma, sbirciando di
straforo la vetrina, ho visto l'ultimo dei redivivi Psychotic Waltz e ho
pensato che fosse sempre un gran bel posto per qualsiasi ragazzetto di Milano e
provincia.
Non credo che quel
Pippo, mettendo su Mariposa, pensasse a quante persone avrebbero reso felici, e nemmeno Angelo che, si dice, da commesso divenne titolare.
Probabilmente no, dietro un negozio così non ci sono tanti calcoli. Se no il
cartonato nel 1988 sarebbe stato un altro. Soprattutto se come Pippo ti sei
fatto le ossa a Radio Deejay con Cecchetto, che sa sicuramente distinguere un
brocco da un purosangue.
Generazioni di
metal e punk gli devono tanto. E se
questa comune aria di lutto che si respira ora ne consacra l'importanza, mi
unisco volentieri alle celebrazioni, conscio del fatto che spendere due righe
per Mariposa significa non solo ringraziare i suoi proprietari per quello che
hanno fatto conoscere, ma anche per quello che ci hanno spinto a essere. Il
negozio sotto il Duomo come punto di partenza, il resto tutto nelle nostre
mani.
Tommy
Massara degli Extrema un giorno mi rivelò che tra i suoi sogni c'era quello di
vedere un suo disco messo in vetrina, mentre leggenda vuole che Francesco Renga
sia stato tra i duemila ad accaparrarsi le prime copie del Black Album dei Metallica e Giampiero Ingrassia abbia
speso un capitale in rarità dei Kiss. Per non parlare delle decine di
giornalisti, fanzinari, promoter e quant'altro siano nati girando (anche) là
dentro. Quindi è improbabile non
farsi fregare da un po' di nostalgia. Difficile non credere che
Milano avesse ancora bisogno di un posto come Mariposa.
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