sabato 1 giugno 2024

RUGBYTOTALE & SOCIALE - ANEDDOTO/ Lettera di un padre al figlio rugbista !


Rugby Experience School L'Aquila

  

Pubblichiamo di seguito la lettera scritta da un papà, Roberto Biondi, al proprio figlio (e con il cuore a tutti i ragazzi in campo e sugli spalti) dopo la finale di sabato scorso.

Lettera ad un figlio che ha perso la finale.

Ciao…,

non è facile per me scriverti queste parole, ma sento nel cuore una necessità impellente di farlo perché tu possa riflettere su quanto hai vissuto e su quanto abbiamo vissuto anche noi, dal di fuori. Non è semplice il percorso che hai fatto, non è stato semplice arrivare al culmine di quanto il rugby a livello giovanile possa esprimere.

Lo hai fatto con le caratteristiche che ti contraddistinguono. Lo hai fatto con la generosità, con il coraggio e con il cuore. Lo hai fatto pensando a chi non c’era più; forse lo avrai fatto anche per tutti i tuoi compagni che hai perso durante il percorso, lo avrai fatto anche per chi ti ha supportato dagli spalti. Così come chi è venuto a vederti ha sopportato un viaggio lungo, duro e a tratti assurdo. Hai imparato tanto, ne sono sicuro.

Hai imparato cosa significhi giocare sotto pressione, hai imparato cosa significhi stare nell’occhio del ciclone, hai imparato l’onta di un errore, hai conosciuto la durezza di avversari leali, di tutti gli avversari leali che hai incontrato fino a questo momento. Forse nelle più belle favole c’era scritto che avresti dovuto sollevare la coppa grande, non quella piccola. Ma forse era scritto anche nelle storie dei ragazzi delle Fiamme Oro, o in quelle dei ragazzi di Rovigo, o di quelle dei ragazzi di Verona, o di Padova, o di Livorno, o di Firenze. 

Anche loro, ne sono sicuro, hanno lottato come te su ogni pallone, non hanno indietreggiato mai davanti ai propri avversari. E allora oggi te ne andrai con un bagaglio in più. Forse le tue notti saranno popolate dei fantasmi della partita; forse ti ripeterai quanto tu sia stato sciocco a fare quella scelta, che avresti potuto fare un’altra cosa: un passaggio più preciso, un calcio più lungo, un placcaggio più duro. Forse ti ripeterai che in quell’ultima touche avresti dovuto saltare più in alto, o lanciarla meglio. Forse quel cambio di passo non era necessario, meglio calciare la palla fuori che inzuccare, forse, forse, forse…

A tutti capita di vivere un’intera esistenza coi propri fantasmi, perché ognuno di noi li ha. Anche chi come me di finali non ne ha giocata nessuna. Ma non serve stare su un campo per giocare, per vincere o perdere. Lo sport non è la vita, è parte della vita; è una metafora della vita. Lo sport praticato con l’impegno e con la dedizione che hai messo in campo è un paradigma della vita. Ti insegna a vivere con la frustrazione, con l’errore, con la sconfitta. Ma la cosa più importante è sentire di essere vivo. Forse non lo sai, la tua spensieratezza da adolescente con un filo di barba ti avrà preservato, ma un’intera città sapeva che avresti disputato questa partita. E si è stretta attorno a te. La partita è stata vista da quasi ventimila persone. Non ti tremavano le gambe al solo pensiero? No, tu te ne stavi lì a correre su quel campo, a fremere in panchina, ad urlare e cantare sugli spalti. Quanto importante è stato questo giorno!

E adesso che farai? Me lo chiedo dal momento in cui il fischio finale ha interrotto ogni speranza. Perché la vittoria ti dilata il tempo, fai festa fino a notte fonda, poi fai festa al ritorno, poi fai festa con gli anici. E rivedi mille volte la partita. La sconfitta no, la sconfitta accorcia tutto, ingrigisce tutto e spesso rovina rapporti meravigliosi e storie importanti. Cosa avrei dato per asciugare quelle lacrime che si mescolavano col sudore. Vederti così mi ha ucciso. Sentire il pianto, i singhiozzi mi uccide ancora oggi. Uccide l’orgoglio stupido di un padre o di una madre. Avrei voluto vederti saltare, gioire, ridere, ballare e fare festa. Avrei voluto schierarti io in campo, ti avrei io fatto capitano, io, io, io…

E infatti tu hai ballato, hai fatto festa, hai riso. Io, stupido padre orgoglioso, non ho fatto festa, non ho riso, non ho ballato. Anzi ho recriminato, ho inveito contro questo e quello. Ho fatto la figura del padre stupido. Tu oggi mi hai insegnato come si vive una sconfitta, tu oggi mi hai insegnato cosa significhi accettare una delusione così cocente. Sei sceso dall’autobus con la medaglia al collo, con le ciabatte corte, con le ciabatte colorate, sei sceso con un volto scuro come la notte, ma anche con un sorriso meraviglioso. Non lasciare che gli adulti sporchino questa tua attitudine, non lasciare che il retro-pensiero inquini la tua spensieratezza. Lascia queste cose ai grandi.

Dimmi solo una cosa: adesso che farai? Io sono sicuro che quel placcaggio lo farai più duro, sono sicuro che quella finta sarà più rapida, sono sicuro che quella presa al volo più coraggiosa. Sono sicuro che imparerai a non piangere più per una sconfitta, per la frustrazione di aver giocato poco o per niente. Sono sicuro che ci saranno momenti migliori di questo, ma dai quali non imparerai nulla. Oggi hai fatto vedere il tuo lato fragile, domani verrà fuori quello vero, quello che fa di te uno che arriva in finale. Quello per il quale è stato suonato l’Inno nazionale. Tutti in piedi e mano sul cuore.

Con amore e riconoscenza,

papà.

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