Una meta
oltre il Rugby, Marco Bollesan al Gala 2004: «Sport che aiuta nella vita, anche
se lavoravo e so cos’è la Cassa Integrazione»
È tutta una questione di
definire i punti. Gli uni accanto agli altri ti portano a tracciare linee anche
più imprevedibili dei capricci di un pallone ovale, ma ce ne sono alcuni di
fondamentali. «Non sono un uomo, sono un
tailleur»; un raro caso in cui è l’abito a fare la persona. Per lo stile?
Beh, considerando il soggetto avrebbe potuto anche essere. No, il capo di
vestiario riferito a Marco Bollesan è
a qualcos’altro: è stato ricucito più lui di una cima a Natale. A volte
direttamente sul campo, come all’esordio azzurro, il 14 aprile 1963, a
Grenoble, un posticino all’ombra delle Alpi dove l’Italia 24 anni dopo vincendo
la Coppa D’Europa in Finale con la Francia avrebbe cambiato
per sempre il Rugby tricolore. E Marco era ancora lì come Team Manager. «A seconda dell’infortunio ho collezionato punti
gloriosi e punti banali». Tutto giusto, con una precisazione: anche a
seconda dei meriti, non solo delle ferite sul campo. Perché da Chioggia dove è
nato, a Genova dove è cresciuto e ha esordito, a Napoli ha fatto sognare e
fatto crescere, come a Milano e in Sardegna, c’è un prima e dopo Marco
Bollesan, un prima e dopo il punto in cui il dilettantismo e l’epopea della
leggenda approda al professionismo e alla Storia.
Quando
parla al Gala del 2004 è già Leggenda da tempo, proprio per questo viene
premiato, e ci ironizza e scherza su. Ma se talvolta banali sono i punti che
lui stesso ha conquistato, le sue parole non lo sono mai.
«Quando
si riceve certi premi, in termine tecnico-sportivo si dice “sei arrivato alla
frutta!”, e comunque è sempre un piacere avere un premio dalla mia città e dai
miei cittadini Genovesi, che sono molto attenti ai premi, non solo per una
questione di soldi, ovviamente, ma premiano le persone con una certa
attenzione. Quindi sono lieto di essere qua, è un piacere, sono contento di
averlo interpretato in maniera anche ritengo abbastanza significativa. Noi non
veniamo ricchi, noi giochiamo a Rugby, uno sport che ci aiuta tanto nella vita.
Pur giocando a un ottimo, buon livello, interpretavo la vita come tutte le
persone normali, lavoravo, so cos’è la Cassa Integrazione, il costo del
pane…no, veramente questo non lo so e alla
stessa maniera mi son mosso in un contesto sportivo»
Aveva fatto un rapido cenno alla Nazionale che in quel momento battagliava per migliorare i suoi risultati contro le grandissime della disciplina, strappando vittorie alle Britanniche e pianificando strategie pluriannuali per raggiungere i Quarti in Coppa del Mondo, ed entrare idealmente tra le migliori 8 del pianeta:
«Siamo
“leggermente” impegnati perché stiamo andando a fare una tournée in Romania e
Giappone, ci stiamo preparando per il prossimo Sei Nazioni e poi per la
prossima Coppa del Mondo»
Sarà Addetto alle
Comunicazioni sino al 2008, vivendo in prima persona anche l’ultimo epocale
episodio del Rugby Azzurro, il Mondiale 2007 e lo “spareggio” proprio per i
Quarti di Saint-Étienne, perso per soli due punti. Quella meta mancata non è
stata comunque l’ultima di una vita passata sempre a spingere. Ad esempio
dal 2006 al 2014 come presidente della SportinGenova, collaborò a gestire
tutti gli impianti sportivi di proprietà del Comune. Mentre a Boccadasse, se
girando tra le barche, poteva dare una mano nonostante non fosse più un “bèllo zoêno”, non si tirava mai
indietro. Come nel 2008, quando una tempesta abbattutasi
sul Borgo dei Pescatori rischiava di travolgere tutti i legni e lui era lì a
provare a mettergli in salvo, rimediando pure per rimediare la frattura
dell’omero. L’ultima delle “Vulnera Adversa”, le ferite onorevoli per gli
antichi, ottenute sul campo, a corollario dei 164 punti di satura ottenuti in
carriera.
Questi vanno a formare un
filo che attraversa e unisce tempi e luoghi: nato
nel 1941, cresce nelle file del Cus Genova, all’epoca sponsorizzato Italsider, azienda nella quale
lavorava come operaio. Di lui Giorgio Cimbrico diceva che aveva «la faccia sgherra e la testa leonina”, mentre su sé medesimo ha ammesso: «sapevo
solo fare a botte: se non ci fosse stato il rugby, chissà dove sarei
finito”. Come tanti, mai come troppi che poi ha provveduto a mettere
in riga e far crescere con lo stesso sport che tutto gli ha dato e a cui ha
provato a ricambiare con pari generosità.
Già nel 1963 a 22 anni, terza linea centro, esordisce in nazionale in quello storico match con la Francia a cui si è fatto cenno e in cui si taglia un sopracciglio. Al primo minuto. Lo sistemano e riprende a giocare. L’Italia che già da quel momento diventa sua, va a un passo dall’impresa. Nelle sue stesse parole: «L’ Italia e in vantaggio 12-6. A 5′ dalla fine subiamo una meta trasformata: allora valeva 3 punti piu 2. Siamo ancora avanti d’ un punto. A 1′ dalla fine Darrouy segna la meta del sorpasso e perdiamo 14-12. La grande occasione di battere la Francia in casa sua sfuma. A fine partita, mi viene vicino Crauste, il “mongolo” , terza linea famosa per la sua durezza e aggressività. Mi da una pacca sulla spalla e mi dice ‘ Bravo garion’ , offrendomi la sua maglia».
Ci vorranno appunto più di 30
anni per fissare un punto importante: l’Italia può giocare nel 5 Nazioni, se
può battere la Francia. Per vincerlo, o competere adeguatamente, ce ne vorranno
altro che 30, ma l’importante, nel Rugby, nello Sport e nella vita è
partecipare, ma anche l’immensità del lavoro e degli sforzi che hanno portato
tutti questi punti ad allinearsi in un unico percorso, come un itinerario su
una mappa di un tesoro. E appunto su una mappa che è fondamentale apparire:
quella del Mondo Ovale.
Non più da matricola ma da Capitano che Marco conduce la Nazionale a farsi conoscere, con le tournée, che sono da sempre fondamentali per farsi una nomea internazionale. Una prima in Madagascar nel 1970, poi soprattutto quella del 1973 in Sud Africa, nove incontri, con la vittoria per 24 a 4 sui Leopards, la Selezione coloured. «Un’esperienza coraggiosa. Prima della partita con quella che allora si chiamava Rhodesia, mi raccontarono che il loro numero 8 aveva ucciso un leone a mani nude. Non credetti a quella storia anche se pensare di incontrarlo mi creava preoccupazione. Poi sotto la doccia vidi che aveva il corpo coperto da 3000 graffi».
Le vittorie
in campo e in panchina
A capitanare queste esotiche
e affascinanti avventure ci arriva per i brillanti
risultati coi club, che se lo contendono con avidità: nel 1965 viene
tesserato dai Napoletani del Partenope, Campioni d’Italia in carica, che, per
rendergli appetibile l’ingaggio, si adoperò per garantirgli il trasferimento
dagli impianti Italsider di Cornigliano a quelli di Bagnoli. Con loro vince
subito lo scudetto. Poi dal 1969-70 torna al
Cus Genova: tre volte secondo in campionato, sempre dietro gli
imbattibili padovani del Petrarca. Va al Brescia e in due anni vince il titolo
e poi va nuovamente in finale. Poi il Cus Milano: scende in B e lo riporta in
A. Infine il club più glorioso, prestigioso e vincente di tutti, l’Amatori
Milano, caduto in disgrazia. Lo riporta in auge: ma da allenatore. Smette di
giocare nel 1981 coi bianconeri e ne diventa subito mister: gli porta dalla C
alla A.
Anche da Allenatore finisce per scrivere pagine memorabili: nel 1985 gli viene affidata la panchina della
Nazionale, per il primo storico Mondiale. A pochi mesi dall’insediamento, il 10 maggio 1986 strappa ai Maestri
dell’Inghilterra in un test non ufficiale un
pareggio per 15-15 che rimane al 2021 il migliore contro una selezione
internazionale dei Tre Leoni.
Il 22
maggio 1987 partecipa da CT al primissimo match iridato della storia, contro i
padroni di casa della Nuova Zelanda: gli All Blacks vincono
70-6, ma ancora una volta tutto quello che contava era essere lì, e l’Italia
c’era, tanto per non cambiare, con Bollesan. Ma i suoi ragazzi non si limitano
a partecipare: nel girone più difficile, la
qualificazione ai Quarti viene mancata soltanto a causa del quoziente mete
sfavorevole a beneficio delle Figi, che l’Italia aveva battuto 18-5.
Sostanzialmente fu soltanto la sconfitta maturata negli ultimi minuti di un
equilibratissimo match con l’Argentina a sancire l’eliminazione.
La Meta oltre il Rugby
Allena poi a Livorno e ad
Alghero, e anche il suo Cus Genova, incarico che porta avanti in parallelo alla
direzione di un’agenzia di assicurazioni. Si segnala poi per altre due
iniziative di straordinaria umanità: con l’Amatori Milano verso il fallimento
dopo i fasti Berlusconiani e la scissione dalla galassia Fininvest, nel 1997 si
offre di «allenare gratis i ragazzi che vorranno rimanere.
L’Amatori deve continuare, non può morire cosi», ne diventa
il Team Manager per un certo periodo. Più tardi, nel 2008, ha patrocinato una
causa all’allora Ministro dello Sport Giovanna Melandri: «Lei
si chiedeva quale fosse la città migliore per far nascere un centro per il
rugby studentesco. Non ho dovuto riflettere neppure un attimo. Ministro, le ho
detto, c’ è Napoli». E ha giustificato così quella scelta, con
parole che possono essere considerate, sebbene pronunciate a più di 10 anni
dalla sua recente scomparsa, la sua eredità spirituale: «C’è
bisogno di un campo e stavolta non per vincere scudetti,
ma per far socializzare le famiglie dei ragazzini impegnati. Un posto dove un
adolescente possa superare le difficoltà che gli sono capitate integrandosi con
altri della sua età, quelli più fortunati. Ecco perché un pallone da rugby può
far miracoli. è storto, rimbalza male, non sai dove finirà. Da solo non puoi
prenderlo. Per acciuffarlo hai bisogno di essere parte di un gruppo. Quando
cresci con un insegnamento del genere, non lo dimentichi. Noi diciamo che una
maglia da rugby non te la togli mai di dosso»
Dal Tailleur lungo il filo dei punti in una storia dai mille spunti e
dall’unica direzione si è arrivati alla maglia da Rugby che non ti puoi più
togliere di dosso una volta indossata. Gli altri due grandi amori della sua
vita furono Genova -quando si trasferì in Sardegna per qualche anno ci tenne a
far sapere che la casa nella Superba la teneva comunque che maniman…- e la
famiglia. Le figlie Miride e Marella, e la moglie Mariangela, il nome che
come Rocky invocava in ogni frangente: era quella che aveva scelto per chiamare
gli schemi. Il 11 aprile 2021 è partito, a 79 anni, per una trasferta più lunga
del Sud Africa per un Terzo Tempo senza fine. Salutandolo per l’ultima volta su
questo campo terreno l’ultimo punto, esclamativo, l’ha messo la sua squadra con
un grido. È stato glorioso.
Federico
Burlando
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